Negură Bunget – “Zău” (2021)

Artist: Negură Bunget
Title: Zău
Label: Prophecy Productions
Year: 2021
Genre: Atmospheric/Folk Black Metal
Country: Transilvania

Tracklist:
1. “Brad”
2. “Iarba Fiarelor”
3. “Obrăzar”
4. “Tinerețe Fără Bătrânețe”
5. “Toacă Din Cer”

La musica dei Negură Bunget è sempre stata e, fossero le cose andate in un altro modo vi è da giurarci, sarebbe rimasta virtualmente in eterno un riflesso diretto, intoccato ed inadulterato del fortissimo bagaglio concettuale e d’identità che ogni uscita porta tuttora con sé. Luce benedetta fino ad un istante in apparenza privo di particolarità in un altrimenti così comune 2017; e poi il buio, all’improvviso. In ciò è tuttavia sempre apparso chiaro come, nonostante ogni cambiamento di forma ed insignificante carne esteriore, tutti gli individui che si sono succeduti nel prendere parte all’evoluzione di una band tale, dal primo all’ultimo e senza soffermarsi inutilmente sul lasso di tempo per cui questi l’hanno fatto, non hanno apportato altro se non il loro soggettivo (in molti casi cruciale, certo) contributo ad una manifestazione che ha, così arricchendosi, inglobato finissimi aspetti concettuali, aurali, visivi, spirituali e filosofici al contempo. Ma quel che infine resta ed emerge sempre è un’influenza ancora più grande e soverchiante ad incollare tutto; un passato omnicomprensivo e vivente, un retaggio e nobile lignaggio personale se si vuole, che ha portato ad un preciso avvenimento -il progetto in un certo senso di una vita che condensasse il vedere, l’ascoltare e il sentire, oltre che il più esteso, selvaggio ed ambizioso a cui la band che probabilmente (giusto o forse più sbagliato che sia) rimarrà nella storia come la creatrice di “Om” si sarebbe mai dedicata- nonché alla sua genesi.

Il logo della band

Molto altro vi sarebbe stato dopo la conclusione della trilogia transilvana, e questo è davvero chiaro all’ascolto di un disco come “Zău”. Eppure, anche solo in lui non meno che negli altri due capitoli, vi è una visione così vasta e sacrale, trascendente, sull’immanenza di quelle terre ed il loro passato da ispirare comprensibilmente gli autori rendendoli ciò che saranno per sempre. Va probabilmente da sé, i concetti che vi potevano essere correlati a modo di brainstorming quasi questo fosse un dovere chiamato dalle viscere, dalle radici più profonde che affondano nel cuore, erano e sono così possibilmente infiniti da richiedere quantomeno la forma dell’album multiplo ma del disco singolo all’unisono. Dunque precisamente dove “Tău” (dall’epiteto già indirizzato all’uomo: un regalo, tuo, ed un monito alla profondità eccezionale nel minuscolo) si concentrava su natura, genius loci selezionati -dal Lacul Dracului al Taul dintre brazie, passando per le rocce di Detunatele- e nelle connessioni personali alla fisicità ambivalente delle terre romene, “Zi” fondeva le vibrazioni immense di questi luoghi che trascendono il tempo e il loro spazio nell’osservazione e nella ricerca approfondita, nell’interpretazione dei culti, dei riti e delle pratiche, dei costumi che su queste prosperavano e prosperano proprio nell’elemento umano e nelle sue tradizioni poliedriche; e “Zău” non chiude pertanto un cerchio cronologico, in questo preciso senso, bensì fin dal titolo condensa etimologicamente elementi che sfuggono agli artigli della mente ma vengono riconosciuti dall’anima in una ulteriore ma singolare (con cui si sottintende anche un valore di unicità esclusiva, per forza di cose) esplorazione di quella spiritualità e di quelle speciali energie sospese come in una finestra tra mondi che -qui sì, come a voler chiudere un cerchio- queste terre ha reso immortali.

La band

“Zău” porta però con sé, e lo fa inevitabilmente, tutte le difficoltà di un disco postumo anche nella sua registrazione finale: una che, tuttavia, avendone avute le possibilità com’è avvenuto, non poteva proprio non essere coraggiosamente intrapresa da parte di coloro i quali, con assoluta profondità e serietà di ogni sorta, sono diventati ad ampia ragione i più autentici ambasciatori della Transilvania non nel mero Black Metal ma in musica. La spessa nebbia oscura che avvolge la foresta dell’anima e che per ventidue anni oggi cristallizzati ha dato nome alla band si fa infine biancastra, lattescente, fatta di pura luce e trasparenze rarefatte che partono non casualmente da quell’ultima “Marea Cea Mare” di “Zi”, nata dalla collaborazione coi concittadini Thy Veils, esplorata qui ulteriormente e con ancora maggiore sensibilità nella sorprendente indagine musicale di un quarto d’ora che apre in “Brad” (esattamente come in fondo una “Tul-Ni-Că-Rînd” riprendeva in apertura del secondo capitolo molti degli aspetti di “Tău”, e la stessa “Curgerea Muntelui” inclusavi, volendosi allargare al di fuori della trilogia, era stata ponte premonitore nel mini “Gînd A-Prins”): l’abete i cui rami protesi a corona collegano il regno dei vivi con quello dei morti inframmezzati da un velo candido, funerario nei sussurri e nelle invocazioni di Tibor che spaziano dall’ode all’elegia (si pensi prima alla linearità maestosa ed immota di “Iarba Fiarelor”, in cui i territori Doom si fanno più concreti che mai in casa Negură Bunget, e poi al dramma di cui è indescrivibilmente carica la prima parte di “Toacă Din Cer”) su ritratti sonori di natura ambientale nelle intenzioni, ma ripensati con gli strumenti di un Black Metal che, nelle sezioni più caotiche e contorte di gioielli di un futuro mancato come “Obrăzar” (su cui le tastiere corali calzano seriamente con la nivea integrità di un guanto soprannaturale) e specialmente in “Tinerețe Fără Bătrânețe” (con le sue stratificazioni chitarristiche sganciate tra loro) arpiona l’anima più brulla, montana e grezza di “Măiastru Sfetnic” in cacofonie di strumenti solivaganti che il tempo e nessun altro suona, in una giovinezza senza vecchiaia, come arpe e fiati eolici in cui canta il vento nero senza più intermediari tra quella parte di vetta esposta al calore del sole e la sua gemella avvolta da nubi ed oscurità, da suoni sporchissimi ed underproduced per nascondere e celare dettagli all’orecchio distratto.
Ulteriore esempio estetico ne è la voce roca e abissale che, cavernosa ed occultata com’è quando ruggisce dal basso del mix, sembra provenire più che mai dalle profondità della terra e di quest’ultima essere il messaggio immemore, antico e saggio, altissimo ed inafferrabile, sdraiato sulla nuda roccia meno progressiva o cangiante e più ieratica proprio perché dotata del valore austero dell’immortalità, dell’eterno a cui l’evanescenza dei sintetizzatori che provengono dal cielo, profondi e lucidi come il ghiaccio, tende continuamente con assoluto carattere: uno che è suo ed introvabile tanto nelle più recenti uscite del gruppo quanto nelle più antiche. Cercare dunque un riscontro col passato, figurarsi un ritorno o azzardare un paragone diretto per partito preso o triste mancanza di mezzi d’analisi, non sarebbe soltanto pretestuoso, pigro, miope, ma anche e più seriamente stupido: mostrerebbe infatti non tanto una (ancora scusabile) mancanza di comprensione di quelle che non solo sono, ma vogliono e riescono ad essere le caratteristiche da cui parte tutta la composizione concettuale di un disco come “Zău” (nell’ambito della trilogia e non, benintesi), quanto piuttosto il totale ed imperdonabile -questo sì- fraintendimento nei confronti proprio dell’intero cammino di un progetto di vita che fu di Negru, che fu di Hupogrammos e Sol Faur ma anche dell’impegno e dell’animo dei Tibor Kati, Adrian Neagoe, Petre Ionuţescu – gli ultimi compari dell’artista che così rispettosamente hanno unito gli innumerevoli e fortunatamente già fissati punti alla morte del visionario romeno; e allo stesso tempo, di nessuno in particolare al mondo.

In una geograficamente remota Svezia, tale rispetto alle foreste e ai monti transilvani casa immortale dei Negură Bunget, eppure per molti altri versi a questi vicinissima, si è soliti dire che ciò che giace nascosto nella neve viene fuori col disgelo. È probabilmente vero, in fondo, anche nel caso di “Zău”: un lavoro autentico con ogni sua complicazione e necessaria imperfezione (e che di queste tuttavia si nutre e gode come quasi fosse un allineamento sfuggito ai suoi diretti interpreti) nato da e fatto di dolore, di uno strappo improvviso, imprevisto ed ingiustificato e che nonostante ciò trova la sua ragion d’essere proprio nella sua fine, in ciò che questa svela, lascia alla posterità e tramanda. Che aspetto avrebbe del resto la natura stessa ed il circostante ai nostri occhi se mai avessimo sperimentato il valore di un’opera d’arte con le sue impressioni e mistificazioni; se mai avessimo appreso dai suoi occhi per permettere ai nostri, infinitamente più poveri, di poter vedere senza farsi bastare ciò a cui, soli ed ineducati, possono tendere per natura? Quel bosco, quel lago, quel ramo, quell’ombra, quell’oscurità, non li guardiamo coi nostri occhi ma con quelli di “Filosofem”, di “Bergtatt”, di “Nord…”, “Winterkälte” e dei Negură Bunget. Quando in futuro osserveremo infatti un paesaggio in noi prima ancora che fuori rassomigliare quelli di “Tău”, del grandissimo “Zi” e ancor di più di “Zău”, non ci sarà nulla di strano se sarà abitato e preceduto da quelle ombre che abbiamo scovato anche in “Obrăzar” e “Baciul Moșneag” – saranno quelle che volevano essere animate, libere e vive, che così come nella fiaba di Andersen volevano essere uomo e vi sono riuscite. Quelle insomma di chi ha scritto versi, visto e pensato a suo modo e grazie al modo di altri prima di lui, anche per noi; beato perché ha avuto questa possibilità rarissima ed effimera di parteciparvi, di donare qualcosa che lui solo poteva vedere come e dove nessun altro poteva senza invece ricevere soltanto come le anime sterili, cercando, vivendo nello spirito, regalandosi, ma soprattutto significando.

Matteo “Theo” Damiani

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